Ripartire da zero? Sì, con selezione crudele

Ripartiamo da zero, dicono. Bene, ma ripartiamo da chi? Se si parte da zero, non è dagli stessi che si deve ri­partire. Ma dove sono i marziani che de­vono sostituirli? Vero anche questo, non si può partire dal nulla. Allora da do­ve si riparte, visto che il personale è ina­deguato, salvo eccezioni? Si riparte da tre criteri, a mio parere: dai curricula, dalle motivazioni, dalla cernita crude­le. Primo, se si parte da zero, allora gli in­carichi non contano più nulla e quel che conta è vedere che cosa hai fatto nella vi­ta. Cosa hai realizzato, cosa hai studia­to, che mestiere facevi e soprattutto se avevi un mestiere prima della politica. Secondo, le motivazioni. Se parole co­me ideali, valori, principi, vi sembrano fuori luogo e fuori tempo, diteci quali spinte vi muovono alla politica, se avete motivazioni, non personali né ipocrite (tipo lo faccio per missione, per mettere la mia esperienza al servizio… pussa via). La politica bassa e corrotta è la poli­tica demotivata, dove il mezzo diventa il fine. Infine, la cernita crudele. Esaminato il curriculum, capite le motivazioni, guardato negli occhi il candidato del­l’anno zero, si seleziona senza criteri di affiliazione e collaudata servitù. Solo la qualità, l’energia, e poi ciascuno al suo rango. Due cose, infine. Chi deve farla que­sta cernita, chi è la commissione selezio­natrice? Qui sorgono i dolori, ma da qualche parte si deve pur cominciare; il meglio che è disponibile. E poi, questo cucù è per la «destra», si capisce. Biso­gna rifondarla. Ma non pensate che deb­ba valere per tutti?

(Fonte: Il Giornale – Autore: Marcello Veneziani)

Si è aperto uno scontro generazionale

La politica italiana è sempre più incapace di cogliere la sfida della contemporaneità. Composta da una classe dirigente vecchia, non ha gli strumenti culturali per leggere che cosa sta accadendo e, soprattutto, non coglie l’emergere di uno scontro sociale: quello dei giovani contro i vecchi. Quando una nazione è in mano alla gerontocrazia, quando il mercato delle opportunità è bloccato dagli «inamovibili», quando chi comanda scrive regole che chiudono il gioco democratico e servono la logica della nomina e della cooptazione, il risultato è che un’ampia fascia di popolazione – tra i trenta e i cinquant’anni – viene esclusa dalle scelte per il futuro. Vale per la politica, l’alta dirigenza pubblica e l’impresa privata. Il Paese ha un disperato bisogno di rinnovamento, ma sul ricambio generazionale è stato piazzato un tappo a prova di tritolo. Essere considerati giovani a 40 anni, francamente, fa sorridere. Perché nel nostro Paese è diventato un espediente lessicale per dirti: «Aspetta il tuo turno, ora ci siamo noi». Ovviamente il turno lo decidono i capibastone. E non arriva mai perché non c’è alcun meccanismo di competizione sociale. Numero chiuso. Regime. Mandarinato. Così invecchi, mentre i tuoi figli crescono. Il tempo passa. Ma aspetti il tuo turno.

Mai sentito parlare di «Generazione Y»? Sono i nati tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila. Hanno davanti un futuro ancora più difficile e incerto rispetto alle generazioni precedenti. Sono «nativi digitali», internet per loro è un ambiente naturale, ma vivono in una società che per loro sarà, paradossalmente, sempre più chiusa. La prima ondata trova lavoro con difficoltà, i vecchi costituiscono un ostacolo e non un’opportunità di formazione e conoscenza. Non c’è alcun «passaggio di testimone». Questo fenomeno in Italia ha raggiunto dimensioni croniche. E quando la «Generazione Touch» – quella dei bambini che naturalmente «sfogliano» un iPad o lo schermo di un telefono – avrà raggiunto la maturità, che cosa accadrà? Gli esclusi di oggi saranno i nonni di domani. Questi ultimi andranno in pensione più tardi dei loro padri, con un assegno più basso, in un mondo più complesso. Nel frattempo la classifica delle potenze economiche si sarà rimescolata. L’Italia sarà fuori dai primi dieci posti. I bambini di oggi a un certo punto cominceranno a fare domande «da grandi», prima in maniera vaga poi, anno dopo anno, con la precisione di un cecchino. Alla fine, preso atto dello scenario, si presenteranno come uomini e donne in cerca di un futuro, e chiederanno bruscamente ai genitori: «Ma cosa avete combinato?». E la risposta non potrà che essere una sola: «Non abbiamo fatto niente. Non ce l’hanno permesso e non abbiamo avuto il coraggio di ribellarci».

(Autore: Mario Sechi – Fonte: Il Tempo)

Protesta dei sindaci contro l’Imu

“Il 24 maggio a Venezia scenderemo in piazza. Vogliamo coinvolgere tutta la società civile, i sindacati, le imprese, e le altre forze del Paese, per spiegare ai cittadini da dove arrivano le difficoltà dei nostri bilanci, per costruire una grande alleanza per la crescita".

Con queste parole il presidente dell’Anci, Graziano Delrio, ha annunciato la manifestazione di tutti i sindaci che si ritroveranno a Venezia per proporre una “grande alleanza” per la crescita e per spiegare ai cittadini le difficoltà dei Comuni connesse ai vincoli del Patto di stabilità e soprattutto alla nuova Imu che costringe i primi cittadini a “gabellieri dello Stato” per una tassa che di municipale ha solo il nome.

Come spiegano Delrio e il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in una lettera congiunta ai cittadini: “la nuova imposta, nonostante gli aumenti rispetto alla vecchia Ici, non porterà risorse aggiuntive nel bilancio del singolo comune, anzi i Comuni avranno nel loro bilancio meno risorse rispetto al passato in quanto oltre il 40% del gettito dell’Imu finisce nelle casse dello Stato".

Da ieri, e fino al 24 maggio, il sito Anci si apre al dibattito e ai commenti dei sindaci in vista della manifestazione di Venezia. Il corteo si radunerà a partire dalle ore 15 da Piazzale Roma per poi dirigersi verso Campo Santa Margherita dove si terrà la manifestazione. (geometra.info)

i Promessi Alleati

Con il loro sì, anche se comprensibilmente sofferto e tormentato, il Pdl e il Pd imboccherebbero con grande coraggio una strada nuova e piena di incognite. Se decidessero (come sembra possibile) di dar vita tutt’e due insieme e con il Terzo polo a un governo presieduto da Mario Monti, saprebbero di dover pagare un prezzo elevatissimo. Ma dimostrerebbero che la politica, la vituperata e bistrattata politica, è stata in grado per una volta, la volta più importante, di anteporre il bene comune agli interessi di bottega.

Pdl e Pd sono di fronte a un bivio: il più difficile della loro storia. Caricandosi il peso di un programma impopolare ma virtuoso, in linea con le pressanti indicazioni europee e anche sul tracciato di riforme strutturali e liberalizzatrici di cui ha improrogabile bisogno, sanno cosa aspetta loro. Vivrebbero uno squassante terremoto interno. Vedrebbero andare in pezzi schieramenti e alleanze. Affronterebbero la rivolta di una parte consistente dei loro elettorati. Passerebbero un anno pieno di pericoli e di trappole. Ma si guadagnerebbero il merito storico di aver tirato su l’Italia dal precipizio in cui, mai come adesso, sta rischiando di cadere.

In questi giorni l’Italia sta conoscendo una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. L’annuncio delle dimissioni di Berlusconi ha rimescolato tutte le carte. L’incubo del default costringe tutti i protagonisti, non solo i partiti, ma anche il mondo dell’informazione, dell’economia, delle istituzioni, della società a destarsi dalla pigrizia della consuetudine e del già noto. Sta ribaltando il sistema politico e le nostre categorie concettuali da cima a fondo. Un governo di «grande coalizione» è certamente un’anomalia democratica. Ma lo era anche quella tedesca tra il 2005 e il 2009 che ha stretto i cristiano-democratici e i socialdemocratici in un innaturale abbraccio lungo quasi una legislatura. Quando Churchill diede vita nel ’40 a un governo che prometteva «lacrime, sudore e sangue», pretese che quel governo fosse di unità nazionale, anche nella Gran Bretagna patria del bipolarismo dell’alternanza.

C’era la guerra, è vero. Ma anche il fallimento dell’Italia e la sua emarginazione dall’Europa sono prospettive contro cui è necessario combattere una guerra che comporterà costi dolorosissimi. Se poi la Lega e l’Italia dei valori si dissociassero, privilegiando l’egoismo di partito sull’interesse nazionale, sarebbero il Pdl e il Pd a intestarsi il merito di aver giocato un ruolo nella bufera di una svolta storica: un anno di sacrifici, ma con la prospettiva di ripristinare le condizioni di una sana competizione democratica, in un’Italia che ha trovato la via d’uscita dalla tempesta economica e finanziaria e una strada per ridarle sviluppo e crescita con una ricetta che né un governo di centrodestra né uno di centrosinistra sarebbero in grado di realizzare.

Nell’immediato, i due partiti avrebbero tutto da guadagnare da un loro diniego. Il Pdl metterebbe a tacere il devastante malumore che sta avvelenando il partito dopo l’uscita di scena del leader. Non sarebbe costretto a trangugiare medicine amarissime. Salvaguarderebbe l’alleanza con la Lega. Il Pd potrebbe ingaggiare nell’immediato una campagna elettorale con notevoli possibilità di vittoria. Non si comprometterebbe con una politica di sacrifici che dai banchi dell’opposizione avrebbe volentieri bollato come «macelleria sociale», non regalerebbe a Di Pietro (e a Vendola?) lo scettro della protesta, con l’ovvia prospettiva di scardinare un’alleanza elettorale che sembrava fuori discussione. Ecco perché, se scegliessero la strada più impervia, quella verso cui Berlusconi sta cercando di spingere il suo riottoso partito, il Pdl e il Pd dovrebbero essere accompagnati dal massimo rispetto, anche da chi commenta le cose della politica e non deve misurarsi con quell’ingrediente essenziale della politica democratica che è il consenso. Il governo politico (non «tecnico») cui potrebbero dar vita, con la spinta determinante del Quirinale e con un premier che non potrà non interpretare con il massimo rigore la missione che gli viene istituzionalmente chiesta, richiederebbe una responsabilità eccezionale in condizioni eccezionali. Un compito che forse sarà avaro di riconoscimenti, ma che rappresenterà un soprassalto di serietà e di dedizione al bene comune. Un regalo insperato, una svolta obbligata.

(Fonte: Corriere della sera – Autore: Pierluigi Battista)

Tremonti taglia i costi della politica

Tagli alle auto blu, agli aerei e, soprattutto, ai vitalizi e ai benefit degli ex parlamentari. Il ministero dell’Economia ha preparato il decreto per ridurre i costi della politica. Sette articoli. Si comincia dal "livellamento remunerativo Italia-Europa": dalle prossime elezioni i compensi pubblici non potranno superare quelli erogati dall’Unione europea per gli stessi ruoli. A vigilare sarà una commissione guidata dal presidente dell’Istat.

Poi ci sono le auto blu. Addio alle alte cilindrate. Le macchine non potranno superare i 1600 cc. Unica eccezione per le auto in dotazione al Capo dello Stato, ai presidenti di Camera e Senato e le auto blindate adibite ai servizi istituzionali di pubblica sicurezza. Ma il ministro Tremonti ha deciso di tagliare anche gli "aerei blu": I voli di Stato saranno riservati solo al presidente della Repubblica, ai numeri uno di Montecitorio e Palazzo Madama e al premier.

Ma la norma principale riguarda i vitalizi degli ex parlamentari. "Escluso il presidente della Repubblica, dopo la scadenza dell’incarico nessun titolare di incarichi pubblici, anche elettivi, può continuare a fruire dei benefici come pensioni, vitalizi di servizio, locali per ufficio, telefoni, etc. attribuiti in ragione dell’incarico" si legge nella proposta preparata dal ministro dell’Economia. Inoltre saranno ridotti i finanziamenti agli organismi politico-amministrativi. Tagli, infine, anche ai fondi per i partiti e sì all’election day dal 2012: consultazioni elettorali e referendarie saranno accorpate in un unico fine settimana. (Fonte: Il Tempo – Autore: Alberto Di Majo)